Nella Sarajevo assediata, la speranza era lunga 700 metri.
La città era circondata quasi completamente.
Su tre lati l’esercito serbo lanciava granate dalle montagne; la pista da bob delle Olimpiadi era diventata un riparo per i militari, mentre i cecchini nascosti nelle vicinissime colline facevano morti ogni giorno.
Il quarto lato di quell’ideale rettangolo era chiuso dalla pista dell’aeroporto di Sarajevo. Una pista dove ormai atterravano solo gli aerei delle Nazioni Unite e qualche volo di aiuti umanitari.
Oltre la pista si trovava la Repubblica libera di Bosnia, di cui Sarajevo era Capitale nonché avamposto proteso in territorio serbo.
Nedzan Brankovic, un ingegnere diventato poi primo ministro di Bosnia, ebbe un’idea tanto rischiosa quanto efficace: costruire un tunnel sotto la pista dell’aeroporto.
Il tunnel avrebbe avuto l’uscita nei campi del territorio libero, oltre la linea d’assedio.
I lavori iniziarono nel marzo 1993. L’esercito bosniaco presidiava l’ingresso e si iniziò a scavare.
Servivano persone che scavassero. Più persone possibili.
Persone fidate: utili alla causa, ma soprattutto fidate. Le granate cadevano ovunque e non risparmiavano nemmeno i bambini. Figuriamoci una casa che avrebbe rappresentato una via di fuga, ma soprattutto di approvvigionamento per Sarajevo.
Il Tunnel della Speranza venne terminato il 30 giugno 1993 e venne immediatamente utilizzato.
“Tunel Spasa”, lo definirono: “Il Tunnel della Speranza”.
A pieno regime quello stretto cunicolo vide passare ogni giorno circa 3 mila persone in entrambi i sensi e varie tonnellate di merce.
Da lì passò la sopravvivenza di Sarajevo.